WE ARE BRUNN
Così ieri sera mi ritrovo in quello che tutti i milanesi considerano il “place to be” di queste settimane. Cioè: House of Ronin. Cioè una palazzina d’inizio Novecento in via Alfieri appena trasformata in un locale, ristorante, bar, cocktail bar, club e tutto quello che puoi volere se ti piace la notte. Si chiama House of Ronin perché gioca con l’estetica giapponese e orientale in genere ma in maniera del tutto post-post-post moderna: è un po’ “Blade Runner” e un po’ “Lanterne rosse”, un po’ “Strange Days” e un po’ “Ultima notte a Soho2, un po’ Nicolas Winding Refn un po’ Palazzina Cinese di Palermo (ché lo so che ha due secoli, ma già allora s’andava matti per che chinoiserie).
Insomma, fuor di poesia sono quattro piani in cui c’è di tutto un po’: le salette per i karaoke (entro in tutte: questa fasciata di specchi, quella super pop, l’ultima, puro boudoir, ha il palo per la lap-dance: la gente si sgola, limona, e si diverte); il club all’ultimo piano con i bartender in giacca crema, molto Harry’s Bar, e il gruppo jazz (e pure si fuma! Ottanta nostalgia!); il bar-izakaya al piano terra con la bartender orientale, i vininili, i diffusori super-fighi, le pareti nere, le luci rosse, la stanza per l’omakase che è tutta pronta, manca solo il sushi-man (arriverà nelle prossime settimane).
In mezzo a tutta questa festa, questa musica, questo bere, ballare, divertirsi, flirtare e sognare notti magiche io sono venuto per fare l’unica cosa che mi viene bene: mangiare. Al primo piano infatti c’è il ristorante Robatayaki (cioè la griglia giapponese) condotto da Luigi Nastri detto Gigi che ha girato il mondo e adesso è tornato qui, a fare una cucina cross-over, che mette assieme Italia e Oriente, fermentazioni e umami, maki e sashimi, risotto e Mont Blanc (però di fagioli). Insomma: libertà.
Mi siedo al banco – tutt’intorno teorie di tavoli e divani, clienti e camerieri – e, guarda un po’, sullo sgabello accanto al mio c’è Cristina Bowerman che scoprirò amica ed estimatrice di Nastri. In un paio d’ore mangiamo di tutto un po’. Si parte piano – la ventresca, gli uramaki, l’ostrica in tempura dai, buonini, ma ok… –, poi il gyoza di wagyu si fa goloso, ma è solo un prologo alle cose buone davvero: il risotto con anguilla laccata, un ramen con aglio nero fermentato bello spicy, veramente figo, la lingua “giapponese” anche lei oh yeah.
Sono ospite, me la godo, non bado a niente, nemmeno a spese: bevo cocktail in versione giapponese – Martini e Negroni a base sake – e sake, chiacchiero con la chef accanto a me e con lo chef di là dal banco, ogni tanto mi permetto un detour agli altri piani, per ascoltare musica, far finta di ballare, godermi lo spettacolo. Ma vedo i menu e capisco che qui, da Nastri, si spendono sui 60/70 euro, all’Izakaya una ventina, l’affitto delle salette per il Karaoke costa 190 euro per 15 persone, per un’attività rilassante almeno come il calcetto; il club all’ultimo piano invece è privato, e prima di quanto si spende bisogna capire se si può accedere (io oggi ho un bell pass “All areas!).
Ma a dire il vero la cosa che mi interessa di più sono i clienti: tra i venti e i trenta, eleganti, chiaramente con i dindi, belle, belli, trendy, fluidi, liquidi. Milano è l’unica città italiana con ventenni che lavorano, guadagnano (e magari già ne hanno di famiglia), spendono per divertirsi – penso – e dunque l’unica città italiana dove è possibile aprire un parco di divertimenti di gastrotainment come questo. Tant’è che per mangiare da Nastri ci sono quasi due mesi di attesa.
Verso l’una House of Ronin è in piena attività: Maracaibo, rum e codeina (quella che sto per prendere per andare a dormire). Tutto è bello ma il fatto che chiedendo in giro nessuno ricordi il film “Ronin” che segnò la mia generazione mi fa capire che quasi tutti i presenti nel 1998, anno d’uscita della pellicola con Jean Reno, erano appena nati. E dunque è il momento che faccia come i genitori evoluti: lasci la festa e ai ragazzi la notte che appartiene a loro. Io devo tornare nel mio alberghetto qua accanto a finirmi una puntata di Colombo.